febbraio 1, 2011 § Lascia un commento
Non si arrabbiava mai. La vedeva ogni giorno, seduta sugli scalini a giocare da sola. La polvere che si alzava ogni volta che passava una macchina le finiva sui capelli spessi e lei neanche se ne accorgeva. I suoi fratelli, tutti più grandi, a volte le tiravano sassi, altre volte le tiravano i capelli. Una volta le avevano tirato una scarpa. Lei l’aveva raccolta e ci aveva fatto una casa per una lumaca che aveva perso la chiocciola. Ma certe decisioni non si possono prendere a nome di altre creature, e se si può scegliere, perché scegliere di vivere dentro una scarpa? E, infatti, la lumaca non ci era rimasta a lungo, lui aveva controllato. Ma la bambina non si era arrabbiata neanche quella volta. Lo salutava tutte le mattine: gli faceva un saluto speciale, piegando solo la punta delle dita di una mano, poi tornava a giocare con dei barattoli vuoti, nei quali cercava di intrappolare grosse formiche spaesate. Lui non parlava mai con nessuno perché non era sicuro di riuscire a mettere le parole nell’ordine giusto: se gli facevano una domanda, rispondeva con cenni del capo, evitando complicazioni tipo parole o frasi. Così era molto più semplice. Quindi si ritrovò del tutto spiazzato quando un giorno, passandole di fianco, lei gli domandò: “Cos’hai portato?” Due galline, che lui aveva abbattuto quella mattina e che aveva subito portato alla madre della bambina, il corpo ancora caldo sotto le penne lucide. Avrebbe voluto dirle ‘Due galline’, ma non ci riuscì. Il panico gli strinse la gola, non potendo rispondere semplicemente sì o no col capo. Si fermò in silenzio a guardarla. La situazione precipitò quando la bambina gli pose un quesito ancora più arcano: “Secondo te è peggio trovare le uova in un nido caduto da un albero o trovare un uccellino che è stato lasciato su un ramo e che non riesce a volare?” Rimase a osservalo, attendendo una risposta. Con le mani nascoste dietro la schiena, lui si morse le labbra e si strinse nelle spalle, cercando di pensare a cosa fare, se scappare o fare finta di non averla sentita. Ma la bambina corrucciò lo sguardo e affermò: “Anche secondo me. Sono peggio tutte e due.” E tornò a versare terriccio in un contenitore di plastica. Il peso che l’aveva schiacciato si sollevò di colpo, e lui riprese a respirare con ritmo pressoché normale. Si voltò e s’incamminò giù per il sentiero stretto che lo riportava a casa, spostando il fogliame spesso per farsi strada; ma alla bambina non scappavano i dettagli importanti, ed era rimasta a guardarlo mentre lui spariva inghiottito dalla vegetazione. Si era alzata e si era avvicinata alla radura, per assicurarsi di aver visto bene: sì, aveva visto bene. Era così. Come aveva fatto a non notarlo subito? Un sasso la colpì al ginocchio. Si voltò e vide uno dei suoi fratelli, che già si preparava a lanciarne un altro. “Tu non sai cosa ho visto io” gli disse, e quello si fermò con la mano a mezz’aria. “Dimmelo.” “No. Sei troppo stupido.” “Dimmelo.” “No. Ma se vuoi vederlo, rimani qui con me domani”. E il fratello, che era un poco stupido davvero, le lanciò un altro sasso addosso, ma si accovacciò di fianco a lei. Si ripromise di rimanere lì tutta la notte per non perdersi quello che lei avrebbe rivelato. Ma quando giunse l’alba, la sua stupidità lo catturò in un altro giorno di giochi giù al ruscello, e ancora una volta la bambina sedette sui gradini da sola, osservando le lucertole spostarsi a scatti sul muro. E finalmente lui arrivò, questa volta portando uova fresche: le gettò addosso un’occhiata veloce, ma fu abbastanza per invitarla a parlare. “Fammi vedere la mano” asserì lei. Esitò. Poiché la cosa non comportava l’uso di parole, decise che, tutto sommato, non aveva nulla da perdere. Cautamente, cercando di non far cascare le uova, le mostrò la mano. Le sopracciglia della bambina si arcuarono, la sorpresa palese nel suo sguardo. Lentamente, lei gli sfiorò la mano, toccando là dove il suo dito medio era appiccicato all’anulare, creando un grosso dito unico e del tutto inutile. Ma era nato così e ci era abituato. La bambina sussurrò: “Sei un uomo coniglio?” Solitamente non aveva dubbi nel rispondere sì o no col capo, ma quella volta rimase immobile a osservare lo stupore negli occhi della bambina. Lei indicò nuovamente le sue dita. “Sono come le orecchie di un coniglio.” Soddisfatta, tornò al suo gioco. Ma quando, dopo aver consegnato le uova, lui le passò di nuovo di fianco, lei lo salutò: “A domani, signor Rabbit.” Quella sera, quando i suoi fratelli tornarono, quello stupido si ricordò della promessa della sorella. “Va bene. Puoi vederlo domani, se torna”. “Ma sei sicura che tornerà?” “Certo. Siamo amici. Io conosco il suo segreto e lui si fida di me”. Lo stupido annuì, e quando uno degli altri fratelli tirò la treccia alla sorella, lui gli diede un pugno sulla schiena. Poi le sorrise. “Sei stupido lo stesso” gli disse lei, ma si sentì contenta del fatto che il giorno dopo avrebbe avuto compagnia mentre aspettava l’arrivo del suo amico uomo-coniglio. (Rabbit di Sara Bovolenta)
SARA BOVOLENTA è nata a Milano, dove ha vissuto fino all’età di 19 anni. Si è poi trasferita in Inghilterra, dove ha studiato alla Mountview Academy of Theatre Arts, dove ha ottenuto una laurea in arti drammatiche. Ha poi studiato scrittura per il cinema alla New York Film Academy di New York. I suoi scritti hanno vinto diversi premi e menzioni in Italia, Australia e Stati Uniti. Il suo primo romanzo ‘I Boschi dell’Odio’ sarà pubblicato a fine ottobre da Foschi Editore (http://www.foschieditore.com/scheda.php?id=224).
gennaio 23, 2011 § Lascia un commento
Negli spazi tra le unghie e la pelle le si era incrostata della curcuma, dando alla sue dita un colorito arancio sporco. Sabita si era portata dietro uno spazzolino da denti e, per macinare via la noia dell’attesa, continuava a sfregarsi gli angoli delle unghie. Pravin aveva accettato di accompagnarla solo perché suo marito si era rifiutato, e lui voleva mostrare a sua sorella che capiva quello che stava cercando di fare, anche se non riusciva ad approvare. “A che ora dovrebbe arrivare, questa signora del mare?” Chiese lui, cercando di non sembrare impaziente. “Perché la devi chiamare così? Non è mica una leggenda: è una barca che viene, porta questa signora, e lei dà consigli a chi ne ha bisogno. Magari lei sa cosa fare.” “Lo so io cosa dobbiamo fare.” “Forza, genio della lampada, dillo tu cosa dobbiamo fare, visto che fino ad ora non abbiamo ottenuto niente, forza dimmi!” Pravin lanciò un’occhiata alla sorella, che aveva sempre avuto la loquacità di un pappagallo impazzito. “Andiamo all’ospedale e vediamo se la situazione è migliorata. Chiediamo a qualche altro dottore” disse lui quando, dopo qualche minuto d’attesa, l’orizzonte era rimasto invariato e nessuna barca si era avvicinata, portando né signore, né speranza. Diamine, se almeno si fosse vista una barca portare pescatori sarebbe stato qualcosa, una piccola soddisfazione almeno. Sabita si alzò e affondò i piedi nella sabbia umida. “Dicono che abbia dei poteri incredibili, che sappia leggere il pensiero.” “Ma cosa vuoi che ci dica? Non è che così, a distanza, può convincerlo a riprendere a mangiare, Sabita.” Cadde un silenzio fitto. Sabita guardò la schiena di suo fratello gonfiarsi d’aria e poi sgonfiarsi: per un momento desiderò essere slegata da lui e da tutta la famiglia, e soprattutto da loro sorella che, da un giorno all’altro, aveva deciso che la vita era troppo pesante e aveva lasciato a loro suo figlio. Da quando la madre era andata al fiume con le tasche piene di sassi, quel bambinetto dal viso paffuto si era rifiutato di mangiare alcunché. All’ospedale l’avevano legato a macchine che gli pompavano vitamine dritte nelle arterie, ma ogni giorno il bambino sembrava più sottile, la sua pelle intrisa di dolore, come carta che lentamente viene imbevuta dall’acqua. Erano giorni che entrambi camminavano in punta di piedi lungo un cammino che portava al loro timore più profondo: di non essere all’altezza di quel compito enorme. Sabita era lì, eppure desiderava potersi slacciare dal nodo che la intrecciava a suo fratello e a quella sorella egoista; ma il nodo non faceva che diventare più stretto, e mai come dopo quella morte Sabita lo sentiva unirli tutti e tre insieme. Almeno con suo marito i patti erano stati chiari: finché morte non ci separi, nel bene e nel male…Ma solo fino alla morte. Questa invece era una tortura che l’aveva annodata a quel compito impossibile: spezzare il filo tra madre e figlio, trattenendo il bambino nel mondo dei vivi, lasciando la madre a quello dei morti. Altre persone si erano radunate sulla spiaggia, tutti ad attendere questa Signora del Mare che veniva a fare miracoli. Più gente arrivava, più Sabita si sentiva sprofondare lentamente sotto il peso di una carena colma di vergogna, che la trascinava sempre più in basso nella sabbia: davanti alla miseria degli altri, il suo dolore sembrava passeggero, sopportabile. Quasi un’inezia. Quando finalmente la barca con la Signora del Mare arrivò, Pravin si mise in fila davanti a una ragazzina con il volto deforme. “Me l’aspettavo diversa” mormorò Sabita, studiando la donna dall’aspetto fragile che parlava con note pacate alla gente, sfiorando loro la testa o il volto. Pravin cercò di nascondere la propria irritazione, mentre Sabita si stringeva al petto le borse di doni che aveva portato per la donna. “Sono offerte” aveva spiegato. “Non siamo mica i re magi” le aveva risposto lui. Quando giunse il loro turno, la Signora esordì:“C’è qualcuno che state cercando di aiutare.” Sabita annuì prontamente. La Signora rimase ad ascoltare il mare per qualche istante. Infine aggiunse: “Lasciate che compia il suo cammino.” E, detto ciò, passò alla ragazzina dal volto deforme dietro di loro. Sabita sentì il deflusso della marea trascinarsi via ogni sentore di speranza. Pravin rimase a guardarla, mentre un tremore sottile le lacerò il volto. “Andiamo” sussurrò lei infine. “No, proviamo a vedere se ha qualche altro suggerimento. Rimettiamoci in fila.” “Ma quale cammino se è fermo a letto da giorni?” Raccolse le borse di doni per riportarsele a casa. “Quel bambino ha bisogno di qualcosa di saporito, ecco. Lo invogliamo con delle spezie e vedrai che la fame gli torna. Altro che cammino.” Disse più che altro a se stessa, riavviandosi verso la stazione del treno. Pravin la seguì, osservando le impronte della sorella, piccole ma profonde, e c’era qualcosa di rassicurante nel poterci infilare dentro il proprio piede, sapendo che davanti c’era un’altra impronta, e poi un’altra ancora. (La Signora del Mare di Sara Bovolenta)
SARA BOVOLENTA è nata a Milano, dove ha vissuto fino all’età di 19 anni. Si è poi trasferita in Inghilterra, dove ha studiato alla Mountview Academy of Theatre Arts, dove ha ottenuto una laurea in arti drammatiche. Ha poi studiato scrittura per il cinema alla New York Film Academy di New York. I suoi scritti hanno vinto diversi premi e menzioni in Italia, Australia e Stati Uniti. Il suo primo romanzo ‘I Boschi dell’Odio’ sarà pubblicato a fine ottobre da Foschi Editore (http://www.foschieditore.com/scheda.php?id=224).